ENVER HOXHA: IL DITTATORE
Nel novembre 1944 i tedeschi abbandonarono l'Albania in seguito allo sfondamento dell'Armata Rossa nei Balcani. Per colmare il vuoto lasciato dalla partenza tedesca intervennero i gruppi comunisti locali, prendendo di fatto, da quel momento, il potere.
Il gruppo di comunisti, formatosi rapidamente durante la seconda guerra mondiale, eliminò tutti gli oppositori. Il Partito Comunista Albanese prese il potere il 29 novembre del 1944, nonostante i continui attacchi subiti dalle componenti nazionaliste vicine alle forze d'occupazione.
Alla guida di questo partito vi era Enver Halil Hoxha, un rivoluzionario, politico e militare che sarà determinante per la storia albanese dalla liberazione dai tedeschi, nel 1944, alla sua morte, avvenuta nel 1985.
Governò il Paese come primo segretario del Partito del Lavoro d'Albania. Fu anche Primo ministro dell'Albania dal 1944 al 1954 e ministro degli Affari Esteri e della Difesa Popolare dal 1946 al 1953.
DITTATURA
Salito al potere, Hoxha legiferò creando un sistema sociale di tipo comunista, abolendo la proprietà privata, attuando la riforma agraria e occupandosi dell’istruzione e della sanità. Obiettivo prioritario era rendere l’Albania una nazione socialista indipendente in grado di produrre a sufficienza per ridurre al minimo le importazioni di materie prime.
I comunisti rafforzarono il controllo, anche attraverso uno spostamento del potere politico in Albania dalle popolazioni del nord, i Gheghi guardati con sospetto, agli abitanti del sud, i Toschi ,da cui provenivano gran parte dei leader comunisti.
Tra il 1946 e il 1948 la politica albanese fu incentrata sulla collaborazione con la Jugoslavia di Tito, firmando un trattato di amicizia e di cooperazione, rapidamente seguito da una serie di accordi tecnici ed economici con l'intento di porre le basi per l'integrazione dell’economia albanese e della repubblica jugoslava di Macedonia.
I patti stabilivano la coordinazione dei piani economici di entrambi gli Stati, standardizzando i loro sistemi monetari, la creazione di un sistema di prezzi comune e una comune unione doganale. Il governo jugoslavo considerava gli investimenti in Albania fondamentali per il futuro della Jugoslavia stessa.
Vennero create imprese congiunte tra Albania e la repubblica jugoslava di Macedonia per l'estrazione mineraria, la costruzione delle ferrovie, la produzione di petrolio e di elettricità e anche per il commercio internazionale, che fu rafforzato grazie a una serie di investimenti jugoslavi.
Le relazioni tra l'Albania e la Jugoslavia peggiorarono, tuttavia, quando gli albanesi iniziarono a lamentarsi del prezzo troppo basso con cui gli jugoslavi acquistavano le materie prime albanesi. Inoltre, la Jugoslavia voleva che gli albanesi incentrassero la loro economia sull'agricoltura e sull'estrazione delle materie prime.
Questo portò nel 1947 all’organizzazione di un’offensiva da parte dei leader jugoslavi contro i comunisti albanesi, fra cui Hoxha.
Per tale ragione l'Albania, nel settembre 1948, entrò in contatto con l'Unione Sovietica, affinché Mosca sopperisse al mancato aiuto da parte della Jugoslavia. Inoltre l’ammirazione di Hoxha per la politica interna ed estera di Stalin svolsero un ruolo fondamentale nel cambiamento delle alleanze.
Il passo si rivelò proficuo per la nazione, in quanto Mosca aveva molto da offrire rispetto alla Jugoslavia. Un altro fattore positivo della nuova alleanza fu che l’Unione Sovietica, non avendo diretti confini con l’Albania, non esercitava una forte pressione sull’Albania.
Nel 1961 i rapporti con Mosca si incrinarono tanto che Hoxha guardò con interesse alla Repubblica Popolare cinese e nel 1968 si ritirò dal patto di Varsavia.
Ben presto anche i rapporti con la Cina si logorarono per interrompersi definitivamente nel 1977 quando, in seguito alla morte di Mao Zedong Presidente del Partito Comunista Cinese, l’Albania si ritrovò in una condizione di isolamento che provocò una serie di assedi.
Parallelamente alla politica estera, Hoxha diede inizio ad un raffinato e violento sistema di repressione nei confronti di ogni libertà di espressione e di pensiero. Vietò il culto religioso, di qualsiasi forma o credo: professare una religione, possedere libri o oggetti di culto, persino chiamare i propri figli con un nome religioso, era reato.
Confiscò chiese, cattedrali, moschee e sinagoghe trasformandole in musei o uffici statali.
Dopo anni di lotta contro il culto, che costò la libertà e la vita a molte persone, dichiarò che l’Albania era il primo e unico paese completamente ateo con una visione scientifico-materialista del mondo.
Tutti dovevano appoggiare il regime, contribuire attivamente e positivamente allo sviluppo della nazione. Il popolo era povero, malnutrito, spaventato e non poteva esprimere i propri pensieri in nessun modo.
Il cibo era razionato, le feste religiose soppresse e sostituite con festività nazionali prive di fondamenti religiosi, tutti erano iscritti al partito e ne dovevano elogiare le gesta, a scuola gli insegnanti facevano propaganda spiegando ai bambini quanto fossero fortunati a vivere in un paese così ricco e forte come l’Albania.
Arte, musica, letteratura, spettacolo erano controllati dal regime, tutte le forme di comunicazione erano manipolate per mostrare l’apparente potenza e ricchezza della nazione con l’obiettivo di mettere in cattiva luce il mondo occidentale.
RESOCONTO AMNESTY INTERNATIONAL
Grazie a un resoconto di Amnesty International, pubblicato negli anni 80, si scoprì che durante quegli anni alcuni diritti umani furono totalmente violati, come quelli appena citati, inoltre molte persone furono giustiziate e imprigionate con lo scopo di rieducare e riabilitare il prigioniero attraverso la sofferenza e il lavoro.
Sulla base dei dati ritrovati, i prigionieri politici detenuti in Albania si aggirarono ai 30.000-34.000, 26.700 uomini e oltre 7000 donne. Secondo la stessa fonte, 5.500 uomini e 450 donne furono condannati a morte e uccisi.
DA ENVER HOXHA A RAMIZ ALIA
Nel 1985 dopo la morte del Dittatore Enver Hoxha, assunse la carica di segretario del Partito Comunista Albanese Ramiz Alia, che, pur attenendosi ai principi di Hoxha, attuò una serie di riforme cercando di rimediare alle scelte del suo predecessore. Ma i problemi lasciati in eredità erano tali da imporre l’obbligo di un cambiamento drastico ed immediato.
FINE DITTATURA-INIZIO REPUBBLICA
Nonostante i fallimenti, Ramiz Alia nel 1987 fu nuovamente eletto alla guida dello Stato. Nel 1990 il malcontento generale e l’esigenza di rinnovamento, secondo il modello occidentale, portarono a prime manifestazioni studentesche per abbattere il Comunismo in Albania, tanto che nelle elezioni del 1992 i comunisti furono sconfitti dai partiti non comunisti. Tuttavia, la condizione di miseria non poteva essere risolta solo tramite elezioni democratiche, pertanto l’esigenza di cambiamento portò la popolazione albanese a scegliere la via dell'emigrazione.
Il fascino esercitato sugli albanesi dalla cultura occidentale fu determinato dalla possibilità di guardare i programmi televisivi italiani che offrivano una visione edulcorata e ammaliante dell’Italia spingendoli ad emigrare verso il nostro Paese.
Di qui la partenza in massa di circa 20.000 persone sulla nave Vlora l’ 8 agosto 1991.
SITOGRAFIA
https://www.vadoinalbania.it/dittatura-comunista-in-albania/
https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/29-novembre-l-Albania-e-Libera-ma-comincia-la-dittatura-di-Enver-Hoxha
https://www.facebook.com/raistoria/videos/lalbania-di-enver-hoxha/2848250255198299/
8 AGOSTO 1991: LO SBARCO DEGLI ALBANESI
Il 7 agosto 1991, la nave Vlora, un mercantile di fabbricazione italiana degli anni sessanta, proveniente da un viaggio commerciale a Cuba, fa ritorno nel porto di Durazzo, portando nella stiva dieci tonnellate di zucchero di canna. Mentre erano in corso le operazioni di scarico, la nave viene presa d’assalto da migliaia di albanesi disperati, che cercano di abbandonare il proprio paese, ormai caduto nel caos.
Il capitano dell’immensa imbarcazione, Halim Maliqi, cercò di impedire alla gente che si stava via via accalcando sul molo, di salire sulla nave, rifiutandosi di abbassare la passerella di imbarco, ottenendo però scarsi risultati. I più determinati, riuscirono a salire a bordo, issandosi sulle funi di ormeggio, e abbassando la passerella permisero a migliaia di uomini e donne di imbarcarsi. Maliqi provò ad allontanarsi dalla costa, per frenare l’assalto, ma i motori in avaria, glielo impedirono. In quella fase, alcuni albanesi persero la vita, nel tentativo di salire a bordo.
Sistemato il motore, alle 16.00 circa, del medesimo giorno, la Vlora lasciò il porto di Durazzo, direzione Italia. La Vlora con a bordo circa ventimila persone e diverse tonnellate di zucchero, impiegò, per percorrere il braccio di mare che divide le coste albanesi da quelle pugliesi, tutto il pomeriggio e la notte. Al sorgere del sole del 8 agosto, comparve all’orizzonte di Brindisi la sagoma della Vlora, che procedeva con lentezza. Prontamente la capitaneria di porto intimò di non attraccare e proseguire verso nord. Così la nave scortata da un elicottero e una motovedetta italiana, procedette verso Bari, dove arrivò alle 10:00 di quella mattina, dove c'erano ad aspettare numerose autorità locali, forze dell'ordine, giornalisti e curiosi del posto.
Gli albanesi, sopraffatti dall’ entusiasmo, iniziarono a tuffarsi in mare per raggiungere la costa a nuoto, nel salto diversi persero i vestiti, venendo ripescati con indosso solo le mutande. La situazione apparve subito tragica, la maggior parte dei profughi, erano stremati, affamati e assetati, dopo aver sostenuto un viaggio di circa un giorno, in condizioni precarie. Si procedette a portare sul posto, acqua e panini, catapultati tra la folla, però in quantità insufficienti per soddisfare i bisogni di tutti, il tutto accompagnato da un incessante viavai di ambulanze. Intanto sullo sfondo iniziarono ad apparire le sagome di altre imbarcazioni salpate nella notte dall’Albania, incrementando l'allarme, tanto da portare alla decisione del governo italiano di ricorrere all’esercito.
Le autorità, a questo punto, procedettero allo spostamento dei profughi in luoghi che permettessero una più stretta sorveglianza, come lo Stadio della Vittoria. Questa scelta venne contestata da molti, perché la situazione, all’interno dello stadio, era disumana: lanci di cibo e acqua dagli elicotteri, condizioni igieniche inesistenti, persone esposte al sole d’agosto, risse e violenze, che portarono inevitabilmente a diversi tentativi di fuga.
Complessivamente riuscirono ad evadere dallo stadio circa 2000 persone, la maggior parte furono, tempestivamente, riportati indietro, altri riuscirono a far perdere le proprie tracce. Si procedette ai rimpatri che furono attuati con l'inganno, raccontando ai profughi che sarebbero stati trasferiti in aereo in altre regioni italiane, mentre in realtà la destinazione era Tirana.
Bibliografia:
Valerio de Cesaris "Il grande sbarco - L'Italia e l scoperta dell'immigrazione", Guerini e Associati, San Giuliano Milanese 2018
Michele Colucci "Storia dell'immigrazione straniera in Italia - Dal 1945 ai nostri giorni", Cacucci Editore, Roma 2017
https://www.raicultura.it
https://www.ilpost.it
HALIM MILAQI: IL RACCONTO DEL CAPITANO DELLA NAVE VLORA
Halim Milaqi, capitano della nave Vlora, il 7 agosto del 1991 si trovava nel porto di Durazzo per scaricare lo zucchero importato da Cuba.
Improvvisamente si accorse che migliaia di persone, dopo aver demolito i cancelli di recinzione del porto, si dirigevano verso la sua nave con l'intento di salire a bordo. Solo, senza poter contare sulla polizia del tutto inesistente, il capitano cercò di bloccare quell'assalto senza alcun successo. Un manipolo di uomini armati riuscì a salire sul mercantile, si diresse nella cabina di comando e, a suon di minacce, imposero a Halim Milaqi di salpare. Ma il motore centrale della nave era in avaria. Quindi il comandante e l'intero equipaggio ripararono alla meglio il motore e, anche se in condizioni tecniche disastrose, iniziarono la traversata dell'Adriatico.
I timori per l'incolumità di tutti i passeggeri non abbandonarono il comandante per tutto il viaggio. Vi erano donne, bambini, anziani disperati e affamati che sognavano una vita migliore e che non potevano essere vittime di un pugno di delinquenti che pretendeva di comandare.
“In quei momenti non si pensa molto- ha dichiarato il comandante in un'intervista a Repubblica del 2011- Volevo solo portare sana e salva quella gente in un porto. La vita umana è fondamentale e un qualsiasi errore o problema poteva scatenare una strage, una tragedia del mare. Sono rimasto oltre un giorno al mio posto, al timone, fino a quando non siamo arrivati. Guidavo una nave senza radar, perché la gente ne impediva il funzionamento, il carico era enorme. Abbiamo anche evitato una collisione. Miracolosamente, le condizioni del mare erano ottime."1
Inizialmente, il comandante impostò la rotta verso le coste di Brindisi, non appena avvistato il porto, Halim Milaqi fece richiesta di attraccare ma gli fu negata dalla capitaneria di Brindisi.
Il capitano allora decise di impostare una seconda rotta: il porto di Bari. Temendo di ricevere un altro diniego, riferì alla capitaneria di Bari le condizione preoccupanti di bambini, donne e anziani che rischiavano la vita per mancanza di igiene e di alimenti.
Halim Milaqi, a velocità minima riuscì ad attraccare anche senza avere la minima visuale a causa delle migliaia di persone che si impadronirono della nave.
In seguito allo sbarco, Halim Milaqi rimase con la Vlora per altri 45 giorni a Bari, dove ricevette manutenzione, per poi ripartire con l'equipaggio in Albania.
Halim Milaqi, continuò a occuparsi di trasporto merci fino al dicembre del 1994.
1https://bari.repubblica.it/cronaca/2011/03/05/news/vent_anni_dallo_sbarco_dei_ventimila_il_racconto_del_comandante_della_vlora-13192810/
Sitografia
https://openmigration.org/analisi/a-bordo-della-vlora/
https://nuovitaliani.corriere.it/2012/11/01/il_comandante_della_nave_dolce/
La partenza della nave Vlora dal porto di Durazzo. Le testimonianze del capitano Milaqi e dei profughi. Video "Luce-Cinecittà" tratto dal film "Anija-La nave" - Regia di Roland Sejko
La partenza della Vlora: il racconto dei profughi e del capitano Milaqi. Video "Luce-Cinecittà" tratto dal film "Anija-La nave" - Regia di Roland Sejko
La partenza della Vlora: il racconto dei profughi e del capitano Milaqi. Video "Luce-Cinecittà" tratto dal film "Anija-La nave" - Regia di Roland Sejko
RESPINGERE O ACCOGLIERE? SCONTRO ISTITUZIONALE: IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA CONTRO IL SINDACO DI BARI
Nella notte tra il 7 e l’8 agosto 1991 il mercantile Vlora arrivò nei pressi del porto di Brindisi, l’allora vice prefetto Bruno Pezzuto, capendo che non si trattava di uno sbarco di alcune centinaia di persone, convinse il comandante Halim Milaqi a dirigersi al porto di Bari.
La nave stava esaurendo il carburante e, dato l’eccessivo carico a bordo, impiegò circa 7 ore per raggiungere la destinazione indicata.
Il mattino seguente, il sindaco di Bari Enrico Dalfino fu svegliato da una telefonata della capitaneria di porto che lo avvisava di aver avvistato una nave piena di persone a bordo. Il sindaco corse subito sul posto per capire meglio la situazione e, di conseguenza, il da farsi.
L’operazione fu diretta dal capo della polizia, Vincenzo Parisi, su ordine del Ministro dell’Interno Vincenzo Scotti. La polizia italiana, a bordo di una nave, impediva al mercantile Vlora di avvicinarsi alla banchina. Il capitano Milaqi comunicò alla polizia: “Io sono costretto a entrare, toglietevi davanti perché comunque sto entrando” [1]. A quel punto, la nave militare dovette farsi da parte e il Vlora si avvicinò al molo Carboni. Dalfino non poteva ignorare affatto quelle migliaia di persone che chiedevano aiuto e non ricevevano alcun soccorso. Quindi, decise autonomamente di permettere lo sbarco dell'equipaggio sulla nave.
«Enrico Dalfino era un politico scomodo, perché leale. Era troppo onesto quindi pericoloso per l’establishment politico, ma non per la gente comune» [2] così lo definisce sua moglie in un’intervista.
Intanto, le notizie iniziavano a circolare e giunsero al Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, il quale decise di gestire la situazione diversamente: poche ore dopo l’arrivo della nave a Bari, in Prefettura arrivò l’ordine di non consentire all’Esercito di affrontare l’emergenza. Dalfino, invece, sin dal primo momento aveva fatto richiesta dell’intervento dell’esercito e della Protezione Civile, ma questi entrarono in scena solo quando si accorsero che la situazione stava sfuggendo di mano.
Il piano del presidente era di riportare gli albanesi nel loro paese. L’Italia si riteneva invasa da quell’ “orda” di albanesi e il governo non era pronto ad affrontare una novità di tale portata, così reagì tutelando sé stesso.
Alle 11:30 di quella lunga mattina molta gente continuava ancora a scendere dalla nave, tuffandosi in mare e accalcandosi sulla banchina per cercare di ottenere acqua e cibo. In molti preferirono sfuggire alle forze dell’ordine presenti e cercare asilo presso qualche famiglia o chiesa.
La decisione del governo fu di trasformare lo Stadio della Vittoria, non molto distante dal molo, in un rifugio temporaneo dove, con l’aiuto di autobus, furono trasportate migliaia di persone. Il sindaco Dalfino non era d’accordo con questa decisione: gli albanesi venivano trattati come bestie rinchiusi in una “cella” dalla quale non potevano uscire. In diversi momenti gli albanesi avevano tentato di fuggire e in molti ci riuscirono, altri venivano presi dalle forze armate che circondavano l’intero stadio, strapieno di emigrati, lasciati senza alcun tipo di tutela. Le forze dell’ordine utilizzarono elicotteri e gru per distribuire i viveri che lasciavano cadere all’interno dello stadio. Vere e proprie lotte si scatenavano per riuscire ad ottenere una bottiglia d’acqua o del cibo, penalizzando i più deboli, gli anziani, le donne e i bambini. Le elevate temperature estive peggioravano il problema della disidratazione e le condizioni igieniche non erano delle migliori.
Lo stadio si era trasformato in un “lager” in cui furono rinchiusi anche altri albanesi arrivati nei giorni successivi con imbarcazioni più piccole. Davanti all’ingresso vi erano forze dell’ordine pronte ad intervenire in caso di ribellioni o evasioni. All’interno vi erano bambini, donne incinte e criminali che minacciavano la gente per ottenere il cibo raccolto.
Nei giorni seguenti iniziarono le operazioni di rimpatrio con l’utilizzo di 11 aerei militari C130 e G222, alcuni aerei dell’Alitalia e motonavi. Inizialmente gli albanesi non conoscevano la destinazione e non immaginavano si trattasse di un rimpatrio, piuttosto pensavano ad un trasferimento in altre città italiane. Questo evento è stato poi definito come “la più poderosa operazione di rimpatrio della storia repubblicana” durante la quale furono riportate nel paese di origine circa 17.400 persone.
Il sindaco non rimase in silenzio: si oppose ai provvedimenti presi da Cossiga. Sui giornali e in tv furono rilasciate varie interviste nelle quali Dalfino, rivolgendosi al Presidente Cossiga, disse:
«“Sono persone” - ripeteva - “persone disperate. Non possono essere rispedite indietro, noi siamo la loro ultima speranza” ... “Quelle migliaia erano solo un popolo affamato con negli occhi il terrore di dovere tornare in patria. E nelle condizioni in cui sono stati costretti, è stato facile farsi prendere la mano dalla disperazione”». [2]
Da Roma Giulio Andreotti dichiarò: “Non siamo assolutamente in condizione di accogliere gli albanesi che premono sulle coste italiane e lo stesso governo di Tirana è d'accordo con noi che debbono essere rinviati nella loro nazione”. [3]
La mattina del 14 agosto Cossiga arrivò a Bari, accompagnato dal Ministro Vincenzo Scotti, la deputata Margherita Boniver e Claudio Vitalone, per il “summit” con i massimi responsabili delle forze dell’ordine e della prefettura. A quell'incontro il sindaco non fu invitato.
Dopo il summit, Vincenzo Scotti rilasciò un’intervista riportata su “La Repubblica” del 14 agosto: «Il problema non è prendere questi 10.000 - (in realtà si è scoperto poi trattarsi di più di 20mila persone) - il problema è dei 50, 100 mila che seguiranno; Non è il falso umanitarismo o il falso pietismo, che serve a prevenire questi problemi, ma aiutare lo sviluppo dell’Albania, dove tre milioni di persone sono ridotte alle lame». [5]
Sullo stesso quotidiano vi fu riportata anche l’intervista a Cossiga:
«Ringrazio le autorità di governo, la prefettura, le forze di polizia, le Forze armate, i volontari e i cittadini di Bari per l'opera puntuale e intelligente che essi hanno svolto in un evento che poteva assumere caratteri di grande delicatezza sotto il profilo umano, politico, della sicurezza e anche delle relazioni internazionali. Non ringrazio, invece, il comune di Bari, né tantomeno ringrazio il sindaco le cui dichiarazioni sono semplicemente irresponsabili. Mi dispiace che questa città, così generosa, abbia un siffatto sindaco. Mi auguro che questi abbia la decenza di chiedere scusa alle autorità di governo. Se così non avverrà, sarà mia cura, come capo dello Stato, chiedere al governo la sua sospensione dalla carica.» concluse poi dicendo «“c'è stato dato atto dal presidente albanese, ha limitato al minimo indispensabile l'uso della forza” … “l'Italia farà il possibile per aiutare l'Albania, per la sua ricostruzione e per la creazione di una democrazia moderna”». [4]
Fecero scalpore soprattutto le parole “cretino”, “irresponsabile” ed altre, in riferimento al sindaco, dette da Cossiga e poi riportate sui titoli di vari giornali di quei giorni.
In risposta alle parole di Cossiga, il sindaco di Bari affermò: «Quando saprò di cosa dovrò chiedere scusa, se effettivamente valuterò riprovevole questo mio comportamento sul piano morale e giuridico, chiederò scusa. Voglio solo ricordare, e l'ho fatto ieri con un telegramma al ministro Scotti, che il comune di Bari era perfettamente d'accordo sul rimpatrio degli albanesi e che ringrazia l'operato delle forze dell'ordine. Non riesco quindi ad immaginare di quale atto devo chiedere scusa, salvo che non si tratti delle semplici ricognizioni di fatti avvenuti, da me sottolineati e riportati dalla stampa» … «Chiediamo solo il rispetto dei diritti umani degli albanesi, essendo d' accordo che devono essere rimpatriati tutti». [4]
In conclusione, il sindaco chiedeva solo di svolgere queste operazioni tenendo sempre conto del fatto che di mezzo vi erano persone e non “bestie”; egli fu l’unico che ebbe il coraggio di entrare nello stadio per rendersi conto personalmente delle condizioni in cui erano messi gli albanesi.
1. Open Migration - pag.29
Servizio del TG2 andato in onda l'8 agosto 1991. Fonte: rai cultura
https://www.raicultura.it/storia/articoli/2021/07/Larrivo-a-Bari-4dd57f05-49b6-4ea3-8c17-d20c10de5197.html
A termine di una conferenza stampa la Ministra per l'immigrazione, Margherita Boniver, e il Ministro degli interni, Vincenzo Scotti, rilasciarono delle dichiarazioni che andarono in onda nel TG2 dell'8 agosto 1991. Fonte: rai cultura.
Trailer del documentario del regista Angelo Amoroso di Aragona “Lo stadio della Vittoria “ realizzato in collaborazione con l'Apulia Film Commission e con la Regione Puglia - Assessorato al Mediterraneo per i vent'anni dello sbarco.
DON TONINO BELLO ALLO STADIO DELLA VITTORIA
“C’è il ministro della Protezione Civile? E quello degli Interni? Desidero invocare un trattamento più umano” 1. Questo l’urlo di Don Tonino Bello, dinanzi allo Stadio della Vittoria, alla vista dei fratelli albanesi, l’8 agosto 1991. Così, con la sua carica di amore potente, il vescovo di Molfetta entra nella tragedia di quei visi lisi e agisce in loro nome. Scorge il volto di Cristo nel volto del migrante, "nuovo povero" 2, e, spinto da un senso del dovere incondizionato, esprime tutta la fratellanza di cui è capace, "senza sé e senza ma".
Don Tonino entra nelle vite di queste comunità man mano che la conosce, condivide le loro gioie e le loro tristezze, propone la maternità come criterio di accoglienza. D’altro canto, Don Tonino ha l’acume di leggere il fenomeno migratorio all'interno di un contesto più ampio, collocandolo in uno scenario socio-economico internazionale. Per tale ragione è da subito molto attivo nell'accoglienza degli albanesi in esodo, come scritto nelle pagine di diario di Renato Brucoli, responsabile del Settore emergenze della Caritas diocesana di Molfetta e suo stretto collaboratore che lo accompagnò al porto di Bari dopo l'arrivo della nave Vlora.
L’aria era afosa, racconta Renato Brucoli, molti cadevano a terra, per l’insolazione, per la disidratazione, per la fame. All’interno dello stadio la disperazione assottigliava la speranza che sfociava in rabbia. Era chiaro che non ci sarebbe stata alcuna forma di accoglienza.
Lo Stadio della Vittoria era circondato da un cordone di forza pubblica. La polizia, di tanto in tanto, caricava impaurita dal minimo sussulto.
In quel marasma una bambina di 6 o 7 anni riconobbe, al di là del cordone delle forze dell’ordine, la sorella più grande. La voglia di riabbracciarsi esplose. Chiesero alla polizia di poter passare, ma questa non comprendeva. Allora si rivolsero al “prete” Don Tonino: "Prete, lo chieda lei, lei che porta la croce di legno". Così supplicò anche lui: "Sono sorelle, lasciate che si abbraccino".3
E’ solo l’inizio di un impegno già preso con i primi sbarchi del mese di marzo di quello stesso anno.
Mauro de Bari
Emil Nicolas Gaudio
1 Ilaria Lia, “Albania andata e ritorno - La storia che sfocia nei grandi esodi, il legame solidale promosso dopo gli sbarchi” Ed. Insieme, Terlizzi 2021, p. 189
2 Renato Brucoli, Monsignore ragazzino. Don Tonino Bello, dal diario di un collaboratore", Ed. Insieme, Terlizzi 2020, p. 143-144
3 Renato Brucoli, "Quelle due sorelline notate da don Tonino nell’inferno della Vlora" – Gazzetta del Mezzogiorno | 8/08/2011
IL RUOLO DELLA CARITAS ITALIANA
Nei primi giorni di luglio del 1991 la Caritas italiana, attraverso una delegazione di rappresentanti, cercò di creare contatti con la popolazione albanese per contribuire alla sua rinascita cattolica e per organizzare la Caritas Albania. Questa operazione fu affidata a Pier Paolo Ambrosi, scomparso recentemente a 72 anni, il cui ruolo e impegno fu fondamentale per i primi tre anni di attività.
Nel febbraio del 1991 Pier Paolo Ambrosi si era licenziato dal suo lavoro, così, quando Don Aldo Benevelli lo venne a sapere, gli chiese di collaborare con lui nella gestione dell'emergenza albanese.
Ambrosi, intervistato da Ilaria Lia il 15 ottobre 2020 prima che le sue condizioni di salute peggiorassero, racconta: «Seguivo le vicende e mi sono fatto l’idea che alcune delle persone arrivate con i barconi a marzo 1991 sono stati mandate fuori dal regime, che ha aperto le carceri con l’idea di liberarsi di presenze scomode, passando la patata bollente alle nazioni che li avrebbero accolti»1.
La Caritas, cogliendo la gravità delle condizioni della popolazione albanese, dopo il crollo della dittatura, decise di arginare il flusso ininterrotto di profughi intervenendo in loco. Per tale ragione organizzò un convegno per stabilire quali azioni intraprendere. "Non possiamo stare in riva al mare con una sporta di aiuti in attesa dei profughi dall'Albania.- ricorda Ambrosi raccontando del convegno - Dobbiamo andare a vedere cosa sta succedendo oltre il mare" 2 . Durante il convegno si decise che: don Aldo Benevelli, fondatore di una Ong, e Pier Paolo Ambrosi sarebbero partiti per l’Albania per elaborare un rapporto dettagliato della situazione; il Vaticano si sarebbe occupato della ricostruzione della Cattedrale di Scutari, la stessa che il 25 aprile 1993 ha accolto Papa Giovanni Paolo II.
Il viaggio di Ambrosi e di don Aldo aveva uno scopo eminentemente esplorativo: si trattava di contattare gruppi di cattolici e le varie autorità in grado di collaborare. Il tutto per comprendere l’intervento migliore da attuare. Infatti, la Caritas Italiana aveva messo a disposizione 3 miliardi di lire e aveva bisogno di indicazioni su cosa fare, sulle priorità e i canali da seguire. Sulla base delle osservazioni e dei contatti presi durante quel primo viaggio, Ambrosi stilò la sua prima relazione che consegnò a don Aldo e alla Caritas Italiana. La relazione fu letta da mons. Celli, il vice del cardinale Sodano, che contattò Ambrosi per far parte di una delegazione ufficiale del Vaticano che sarebbe partita per Tirana negli ultimi giorni di agosto 1991.
Una volta lì, avviarono le attività di accreditamento per l’impiego dei fondi d’emergenza. Di capitale importanza fu l'incontro con il primo ministro Bufi che consentì di avviare le formalità per intrattenere rapporti regolari con lo Stato albanese. Contemporaneamente i volontari italiani si attivarono per incontrare i responsabili dell’esercito da cui ottennero l'autorizzazione a utilizzare i magazzini dismessi di Lundra, in cui concentrare e smistare gli aiuti provenienti dal'Italia.
Nel frattempo Caritas Italiana lavorò alacremente per garantire gli aiuti e per creare e promuovere dei gemellaggi. La distribuzione dei viveri iniziò a metà settembre 1991 e proseguì fino a Natale.
«Caritas ha fatto una scelta molto rispettosa, culturalmente, della povertà, perché non ha speso 3 miliardi per comprare cose a buon mercato, ma ha cercato di mandare alimenti di qualità, per cui c'erano tutte marche che gli albanesi vedevano nei canali Tv italiani- chiarisce Ambrosi nella sua intervista - Nell’organizzare il gruppo di lavoro per la distribuzione di pacchi mi sono reso conto che, al di là della buona volontà dimostrata dalle persone che si erano avvicinate, c’era tantissima miseria, era gente in estrema condizione di bisogno" 3. Nello stato estremo di indigenza in cui versava la popolazione, la possibilità di ricevere gratuitamente aiuti era considerata una pura illusione. L'abilità e, soprattutto, il rispetto con cui Ambrosi e la Caritas agirono in loco, determinarono il successo dell'operazione.
"Il criterio adottato per segnare i pacchi è stato semplice - continua Ambrosi nella sua intervista a Ilaria Lia - Il gruppo di lavoro contatta i rappresentanti della città dei paesi interessati, per farsi consegnare un elenco di tutte le famiglie, strada per strada, e poi si distribuisce meccanicamente casa per casa, palazzo per palazzo, tutti i pacchi di aiuto. Lista alla mano, tutti coloro che ricevono aiuti di sussistenza, firmano e lasciano il numero della carta di identità" 4
Intanto, la Comunità Europea (CE), nel 1992, dopo i continui sbarchi e le evidenti difficoltà in cui versava l'Albania, decise un piano di aiuti anche come incentivo alla democratizzazione del paese. Il programma europeo prevedeva aiuti per 300 mila famiglie albanesi del valore di 1 miliardo di lire. La gestione degli aiuti era stata affidata alla Croce Rossa che, però, aveva rifiutato. Così il segretario del responsabile CE in Albania, Frederik André, si rivolse ad Ambrosi e alla Caritas Italiana. La proposta di Frederik fu accolta. La squadra di volontari fu ampliata e il 29 luglio arrivò a Durazzo la nave con 1.000 tonnellate di cibo, depositate in magazzini, non lontani dal porto di Durazzo, a Kavaja, che lo Stato aveva messo a disposizione.
La cooperazione continuò negli anni con la fondazione della Caritas Albania e con una serie infinita di iniziative umanitarie che si coronarono con la visita del Papa a Scutari il 25 aprile: la prima visita ufficiale del pontefice nell’Albania libera dal regime.
Con l'arrivo della prima delegazione di Caritas Italiana in Albania si avviò una rete solidaristica su tutto il territorio nazionale; si approntò la formula dei "gemellaggi pilota", il cui compito primario era di far nascere, sostenere e rafforzare i Comitati Caritas nelle quattro principali città albanesi: Scutari, gemellata con la Caritas di Cuneo, Tirana con la Caritas di Roma, Durazzo con la Caritas di Bari-Bitonto, e Valona, insieme al Sud, con la Caritas di Otranto. Successivamente venne aggiunta Bologna, che prese in carico Elbasan.
La rete di gemellaggi che si creò coinvolgeva anche villaggi non cattolici nell'ottica di aiuti concreti al di là del credo religioso. I programmi di aiuti per l'Albania si intensificarono nel corso degli anni, riuscendo a migliorare il livello di vita di una popolazione a lungo martoriata. Solo per gli aiuti di urgenza i dati, dei primi due anni di attività, parlano di 50 tir con una capienza di mille tonnellate ciascuno, contenenti da alimenti a coperte e generi di prima necessità per la cura della persona, per un valore complessivo di 2.138.087.000 delle vecchie lire.
Gemellaggi e rapporti solidali furono il modo più efficace per intervenire nel tessuto sociale e offrire aiuto. Sono stati avviati quattro gemellaggi pilota per i quali la Caritas italiana ha contribuito nella misura di 560.000.000 lire. I Progetti pilota della Caritas presentavano quattro requisiti: «rispondere alla necessità e al bisogno di un determinato luogo» e orientare «la soluzione di problemi simili in altri luoghi e per altri gruppi umani»; procurare "creazione di reddito" per aumentare il «livello di vita della popolazione (il più basso di tutta Europa) con la costituzione di un diffuso tessuto economico di base»; "gestire localmente": i beneficiari diretti sono piccoli gruppi di persone o famiglie, senza che si creino privilegi o favoritismi.5
Un intenso lavoro di solidarietà, dunque, che ha consentito all'Albania di uscire lentamente dalla miseria. Ma se tutti questi aiuti non fossero mai arrivati, cosa sarebbe stato dell' Albania ?
1Ilaria Lia "Albania Italia andata e ritorno - La storia che sfocia nei grandi esodi, il legame solidale promosso dopo gli sbarchi", Ed. Insieme, Terlizzi 2021 p. 194
2 Ibidem, p.194
3 Ibidem, p.198
4 Ibidem, p.199
5 ibidem, p. 212
GLI AIUTI A DURAZZO DELLA DIOCESI DI MOLFETTA
Don Tonino Bello, vescovo della Diocesi di Molfetta - Ruvo - Giovinazzo - Terlizzi, considerava l'esodo del popolo albanese la conseguenza straziante di tre principali problemi:
1. Giustizia mondiale, imprescindibile per la pace, per la garanzia dei diritti fondamentali dell’uomo;
2. Ignoranza da parte del mondo benestante, delle grosse tragedie che “travagliano l’umanità”. La necessità di mezzi di comunicazione che denuncino l’assurda condizione di indigenza, in cui versa gran parte dell'umanità, per sensibilizzare la parte ricca del mondo al ripudio della guerra con tutti i suoi sprechi e le sue distruzioni;
3. Il ruolo dell'Italia nell'area mediterranea: ago della bilancia di una politica umana di accoglienza e mediazione grazie alla sua collocazione geografica e alla generosità mostrata dal volontariato pugliese, in grado di supplire alla mancanza degli interventi statali.
Pertanto, dal marzo del 1991, la diocesi molfettese s'impegnò nel “Progetto Albania” che si prefiggeva da un lato di accogliere i profughi, dell'altro di intervenire in Albania per aiutare in loco la popolazione. La diocesi di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi disponeva di un Settore Emergenze di Caritas gestito da Renato Brucoli che riuscì a supportare le iniziative di Don Tonino, coinvolgendo numerosi volontari.1
L’efficiente macchina organizzativa si preoccupò dell’ assistenza medica, del sostentamento e di una sistemazione dignitosa, per più di 400-500 persone rivolgendosi ai principali istituti religiosi: case di accoglienza, diocesi e Caritas. Lo stesso Don Tonino ospitò varie famiglie sotto il proprio tetto, ma l’elevata quantità di richieste (anche per la presenza delle persone sfrattate) consentivano periodi di permanenza non molto lunghi.
Il Seminario Regionale Pio XI ospitò 125 immigrati, arrivati a Molfetta il 7 marzo 1991 con il peschereccio Beselidhja mossosi da Shëngjin. Si trattava di una comunità prevalentemente maschile, con solo una donna con bambino. Molti altri giovani, provenienti dal porto di Brindisi o dalle strutture di prima accoglienza, governate dalla Caritas brindisina, vennero distribuiti in istituti religiosi fra Molfetta, Giovinazzo e Terlizzi. I fondi a sostegno del volontariato giungevano dalle sottoscrizioni economiche avviate dalla diocesi e dalle numerose donazioni di privati cittadini. Si creò una vera e propria osmosi tra le diverse realtà pugliesi e albanesi, presupposto del futuro processo di integrazione.
Interventi a Durazzo
Le principali microrealizzazioni della diocesi e della Caritas furono:
1. L'Ospedale civile di Durazzo. Il reparto Pediatrico versava in condizioni drammatiche. I livelli di funzionalità erano del tutto inaccettabili, pertanto si intervenne portando i sei posti letto a venticinque e provvedendo all'acquisto di tutta la strumentazione scientifica, di un generatore di corrente e del necessario per sistemare gli infissi e l’impianto elettrico.
2. Il Centro di Ortopedia Infantile e Riabilitativo di Durazzo che ospitava circa 70 bambini operati per malformazioni congenite e bisognosi di interventi riabilitativi in centri adeguati. Artigiani, docenti e giovani del servizio civile sistemarono la struttura: i pagliericci vennero sostituiti con moderni materassi ortopedici, venne organizzata l'attività di animazione in favore dei piccoli e offerta qualche dotazione fisioterapica.
Per sostenere i costi di questi due progetti, la diocesi raccolse 61 milioni di lire in due momenti differenti: l'Avvento nel '91 e la Quaresima di carità del '92. Con le donazioni raccolte, a seconda delle particolari esigenze, si acquistarono:
● Generi alimentari di prima necessità (latte, zucchero, pasta, olio, farina, pelati, carne, formaggi, frutta, riso, legumi, verdure);
● Capi di vestiario (indumenti intimi, guanciali e pigiami, stoffe in generale);
● Coperte, plaid e lenzuola nuove;
● Mezzi di riscaldamento per l'inverno;
● Materiali didattici per i bambini.
Inoltre, la Caritas di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi accolse due domande di studenti albanesi che intendevano frequentare le facoltà Ingegneria elettronica e di Filosofia dell'Ateneo barese e che avevano aderito all'iniziativa della Caritas Italiana, relativa alla messa a bando di 30 borse di studio, da 2 milioni di lire annue ciascuna.
Nell’ottica di creare “relazioni amicali e socio culturali tra studenti di entrambe le sponde adriatiche” 2 si favorì lo scambio epistolare tra studenti di scuola media e superiore. Furono raccolti circa 3000 indirizzi di ragazzi albanesi di scuola superiore che furono dati ad altrettanti coetanei pugliesi.
Il carteggio tra studenti dei due paesi fu accompagnato dalla stesura di micro saggi interdisciplinari sulla realtà albanese ad opera della Caritas diocesana che li raccolse sotto il titolo di "Nel Paese delle Aquile". L’intento era di donarli agli studenti e ai docenti italiani «in vista della settimana di approfondimento della cultura albanese da organizzarsi nel marzo 1993, vale a dire nell'anniversario del primo esodo».
1 laria Lia, “Albania Italia andata e ritorno - La storia che sfocia nei grandi esodi, il legame solidale promosso dagli sbarchi”, Ed. insieme, Terlizzi 2021, pp. 249-256
2 Ibidem, p. 256
Sitografia:
https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/home/295093/quelle-due-sorelline-notate-da-don-tonino-nellinferno-della-vlora.html
https://www.molfettalive.it/news/attualita/964642/le-parole-di-don-tonino-della-notte-di-san-lorenzo-per-i-profughi-albanesi
https://www.piazzasalento.it/don-tonino-migranti-la-testimonianza-accolse-gli-albanesi-bari-nel-1991-96302
Intervista a Don Nicola Amendolaggine della Chiesa di Santa Teresa
Intervista a Don Angelo Mazzone della Chiesa della Madonna della Pace
Mauro de Bari
Emil Nicolas Gaudio
DA PAESE DI EMIGRATI A PAESE DI IMMIGRATI. MIGRAZIONI E POLITICHE MIGRATORIE IN ITALIA
La situazione della politica migratoria italiana ancora oggi presenta diverse incoerenze. Gli sbarchi del 1991 degli albanesi, primo fra tutti quello della nave Vlora, sono stati il punto di svolta della storia di un Paese che da patria di emigrati diventa terra di immigrazione. Gli sbarchi degli albanesi, infatti, hanno improvvisamente portato alla luce due criticità: l’impreparazione all’accoglienza, dimostrata a Brindisi, e la negazione dei diritti avvenuta a Bari. L’arrivo della “Nave dolce” l’8 agosto 1991 pose per la prima volta l’Italia dinanzi alla scoperta dell’immagrazione e della sua totale incapacità di gestione.
Possiamo suddividere la storia della politica migratoria in 3 fasi:
LA FASE DELL’INDIFFERENZA (1973-1985)
LA FASE DELLA GRANDE PROGETTAZIONE SOCIALE (1986-1998)
LA FASE DELLA REAZIONE (1999-….)
LA FASE DELL’INDIFFERENZA
A partire dagli anni ‘60 l’Italia diventa meta di migrazione, grazie al boom economico che aveva provocato l’aumento dei redditi, ma solo dal ‘73, dopo la chiusura delle frontiere da parte degli stati del nord Europa, l’Italia prese coscienza di essere entrata in una nuova fase della propria storia.
Il fenomeno dell’immigrazione, sempre più frequente, portò sindacati e Chiesa cattolica a chiedere a gran voce l’intervento dello stato in materia di migrazione.
Il governo non intervenne in maniera definitiva, ma cercò di tamponare la situazione attraverso interventi mirati, arrivando nel 1982, in piena crisi economica e con un incremento del tasso di disoccupazione, a bloccare totalmente gli ingressi per lavoro.
Gli unici a cui era permesso fare richiesta di asilo, erano i profughi provenienti dai paesi socialisti dell’est, a causa della “riserva geografica” che l’Italia aveva sottoscritto nella Convenzione di Ginevra.
LA FASE DELLA GRANDE PROGETTAZIONE SOCIALE
La prima legge che inaugurò una serie di riforme fu la legge Foschi, approvata all’unanimità dal Parlamento nel 1986, caso unico nella storia della legislazione in materia di immigrazione. Questa sancì parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani, anche nell’accesso ai servizi sociali e sanitari, rese
inoltre possibile i ricongiungimenti familiari, coinvolgendo più di 100.000 immigrati.
Tuttavia, molti aspetti della legge non furono rispettati nel momento di picco dei flussi migratori accompagnati da numerosi episodi di xenofobia.
I diversi problemi presentati durante il periodo in cui era in vigore la legge Foschi furono arginati con la legge Martelli del 1990, approvata in seguito all’omicidio del sudafricano Jerry Masslo e dai movimenti migratori albanesi.
La legge Martelli estese il diritto d’asilo in Italia, introdusse una programmazione quantitativa dei flussi di lavoratori extracomunitari per ridurre l’ingresso di clandestini, introdusse anche misure per il controllo degli ingressi e per l’espulsione di clandestini.
Per facilitare l’integrazione furono creati il Fondo per le politiche dell’immigrazione e i centri di accoglienza (non fu possibile approvare nuove misure in questo ambito a causa della crescente ostilità nei confronti degli immigrati in seguito ai numerosi sbarchi degli albanesi nel ‘91).
Nel 1992 fu approvata una nuova legge sulla cittadinanza mirata a favorire il mantenimento della cittadinanza ai discendenti degli immigrati italiani. Inoltre, per ottenere la naturalizzazione era necessaria una residenza minima di 10 anni.
Nel 1993 venne approvata la legge Mancino per fronteggiare le discriminazioni etniche e razziali.
Questa fase di cambiamenti normativi sull’immigrazione si concluse nel 1998, con l’approvazione della legge Turco-Napolitano, divenuto testo unico sull’immigrazione.
Questa legge prevedeva l’ingresso in Italia per ricerca, lavoro e sponsorship; ampie possibilità per il ricongiungimento familiare; la carta di soggiorno per un diritto alla stabile permanenza senza bisogno di rinnovi periodici; programmazione di flussi di lavoratori extracomunitari; potenziamento delle politiche di controllo e di espulsione; affidamento ad un organismo nazionale il coordinamento delle politiche di integrazione.
LA FASE DELLA REAZIONE
Nel decennio successivo all’approvazione della legge Turco-Napolitano si verificarono diversi scontri dovuti alla crescente immigrazione e alla conseguente polarizzazione del dibattito politico.
L’alternanza al governo di coalizioni opposte creò molta confusione perché ad ogni elezione politica ci furono tentativi di revisione delle politiche sull’immigrazione.
Nel 2002 il centrodestra introdusse la legge Bossi-Fini per cambiare quelle norme che riteneva troppo permissive. Fu ridotta la durata dei permessi di soggiorno per rendere più frequenti i controlli; fu abolita la possibilità di ingresso per ricerca lavoro o grazie ad uno sponsor; fu prolungato il requisito di permanenza per ottenere la carta di soggiorno da 5 a 6 anni; furono ristrette le condizioni per il ricongiungimento familiare; i centri di permanenza temporanea e assistenza divennero centri di identificazione ed espulsione; furono inasprite le sanzioni penali ai datori di lavoro che impiegavano stranieri irregolari; venne introdotto il reato di immigrazione clandestina.
Nel 2007 il centrosinistra tentò di modificare le norme in favore degli immigrati attraverso il disegno di legge di Amato-Ferrero senza però riuscirci.
Questo disegno di legge prevedeva una semplificazione dell’acquisizione della cittadinanza per i nati in Italia, l’accelerazione della naturalizzazione e l’eliminazione delle parti più stringenti della legge Bossi-Fini, migliorando i canali d’ingresso per lavoro e rilanciando l’integrazione.
Successivamente, con l’ampliamento dei paesi facenti parte dell’UE, milioni di stranieri vennero esentati dalle leggi sugli extracomunitari.
Nel 2008-2009 il centrodestra tornò a rendere più restrittive le norme in materia di irregolarità ed espulsione con il pacchetto sicurezza Maroni;
furono allungati i tempi di trattenimento nei CPT (centri di identificazione ed espulsione) a 6 mesi; fu introdotta l’aggravante della clandestinità nei processi penali; furono allungati i tempi per l’ottenimento della cittadinanza per matrimonio; fu resa più difficile l’acquisizione della residenza; furono introdotti degli accordi che permettevano di ritirare il permesso di soggiorno agli immigrati che non rispettavano le leggi.
Negli anni 2018-2019 ci sono state nuove significative svolte in materia di immgrazione in seguito ai due decreti sicurezza voluti da Matteo Salvini. Questi decreti prevedono: l’eliminazione della protezione umanitaria; l’abolizione della possibilità di accoglienza dei richiedenti asilo nei centri gestiti attraverso progetti comunali, indirizzandoli in centri di accoglienza straordinari; riduzione dei finanziamenti per coprire le spese dei servizi da offrire agli ospiti di questi centri; chiusure dei porti alle navi ONG, costringendoli a rinunciare ai salvataggi in mare; raddoppio dei tempi per istruire e concludere la domanda di cittadinanza italiana (possibile dopo 10 anni di permanenza); inasprimento delle pene e delle condizioni per l’espulsione.
Queste misure non hanno portato ad un reale cambiamento della sicurezza del paese, ma hanno prodotto circa 100.000 irregolari che non possono usufruire della protezione umanitaria.
BIBLIOGRAFIA
Michele Colucci "Storia dell'immigrazione straniera in Italia - Dal 1945 ai giorni nostri", Cacucci Editore, Roma 2017
Valerio de Cesaris "Il grande sbarco", Guerini e Associati, San giuliano Milanese 2018
https://www.treccani.it/
https://openmigration.org/wp-content/uploads/2021/11/OM_30dallaVlora_Def-1.pdf
L'ESODO ALBANESE VISTO DALL'ALBANIA
Sono passati solo trent’anni, ma tantissime cose sono cambiate da quell’8 agosto 1991 quando il mercantile Vlora, stracolmo di persone, (più di 20 mila uomini e donne, in gran parte giovani e giovanissimi), giunse a Bari partendo da Durazzo con l’obiettivo di raggiungere la libertà. Ma l’Italia di quegli anni, dimentica del suo passato di emigranti, era stordita dal benessere e non coglieva il razzismo e la xenofobia che si sarebbero palesati di lì a poco. Scopertasi paese di immigrazione dopo l’esodo albanese del 1991, l’Italia vivrà per decenni il timore dello straniero e si nutrirà della retorica dell’invasione delle sue coste confluita, nel tempo, in una serie di leggi e politiche discriminatorie, considerate unico mezzo per arginare il fenomeno migratorio.
In quel lontano 1991 era appena entrata in vigore la legge Martelli che, per la prima volta, riconosceva il diritto d’asilo, come riportato all’art.10 della nostra Costituzione e come stabilito dalla Convenzione di Ginevra. La speranza di essere accolti in un paese libero e opulento, spinse molti albanesi a cercare fortuna sull’altra sponda dell’Adriatico. “L’Albania a quei tempi era diventata come una grande prigione. L’importante per noi era fuggire, la vita non aveva nessun valore”1 - afferma l’attore Neritan Liçaj ricordando i momenti della fuga in Italia con la famosa nave “Vlora”. Neritan Liçaj era tra coloro che vennero fatti tornare indietro appena cinque giorni dopo l’arrivo a Bari, 17.400 persone, tra cui alcuni migranti arrivati prima della “Vlora”. In Italia alla fine rimasero in 1.500, solo quelli che avevano chiesto asilo politico. Ma per Liçaj la vita aveva in serbo delle sorprese. Rientrato a Durazzo, fu intervistato da Mimmo Liguori di Rai 2 che stava realizzando un reportage sugli emigrati rimpatriati. La commozione che traspariva dalle accorate parole dell’attore, che raccontava il suo sogno di lavorare e studiare in Italia, colpirono la preside di una scuola di Torino, Caterina Trabucco, che decise di aiutarlo.
“Si è dispiaciuta per la mia situazione. Ha contattato il giornalista della Rai e gli ha chiesto il mio indirizzo. Ero già tornato alla mia faticosa realtà quando mi arrivò una lettera”2 ricorda. La preside raggiunse Neritan a Durazzo e gli portò un permesso di soggiorno di due anni per lavoro. Dopo la crisi della Fiat, Neritan è tornato a Tirana, ma continua a ritenere che i suoi figli abbiano maggiori prospettive in paesi stranieri e che la piaga dell’emigrazione dall’Albania non sia risanabile.
Il produttore e regista Robert Budina giunse in Italia su una nave salpata da Valona. Dopo aver regolarizzato la sua situazione e trovato un’occupazione stabile, anche lui è tornato a casa. Tre anni in Italia gli sono bastati per comprendere che “il mio futuro sarebbe stato monotono, una routine che psicologicamente non posso affrontare - ha affermato- Mi piacciono le sfide, ho sempre avuto come un buco nello stomaco, sentivo che non stavo facendo quello che volevo”3. Ripensando alla sua esperienza e alla situazione attuale, Budina ritiene che, rispetto agli anni 90-91, l’emigrazione dei nostri giorni sia emotivamente differente. Nel 1991 gli albanesi, dopo decenni di dittatura, desideravano ardentemente conquistare la libertà, anche a costo della propria vita. Oggi vi è una migrazione bilaterale: si parte dall’Albania verso l’Italia e viceversa. “Allora avevamo grandi divergenze con gli italiani, oggi penso che siamo nella stessa posizione: abbiamo capito cos’è la democrazia, abbiamo le nostre delusioni, loro hanno le loro. Chi dall’Italia si trasferisce qui da noi e i nostri che se ne vanno lì, lo fanno per motivi economici, non certo per motivi spirituali”4, conclude Budina.
L’evento epocale, che spinse migliaia di albanesi ad abbandonare la propria terra, è ormai memoria storica tra i giovani albanesi. Fiona Dinollari, una attivista di Durazzo di 22 anni, è venuta a conoscenza della nave “Vlora” dai racconti leggendari dei suoi parenti.
“Le immagini che abbiamo visto mostrano un grande desiderio di libertà che si è andato a riflettere nelle generazioni a venire. - afferma Fiona - Chiunque è partito ha voluto in qualche modo sfidare il proprio futuro e chi alla fine è tornato lo ha fatto con uno spirito di cambiamento, portando anche una una prospettiva diversa di guardare il mondo”. Tra le nuove generazioni è assolutamente normale trasferirsi all’estero per studio o per lavoro senza quel carico emotivo che accompagnava la fuga dei loro genitori. Gran parte degli amici d'infanzia di Fiona non sono più a Durazzo. “La città ha perso negli ultimi anni quel colore giovanile che aveva, quell’entusiasmo che si leggeva così chiaramente durante le giornate estive e ora sembra una città deserta, una città che prepara le generazioni a partire. È un esodo silenzioso, un esodo che non si fa più solo in barca, un esodo che pervade un’intera generazione che sente di non appartenere più a questo posto” continua Dinollari.
Il desiderio di espatriare, dunque, permane tra gli albanesi come si evince da un’indagine del Consiglio di cooperazione regionale (RCC) nel Balkan Barometer del 2021. Tra gli albanesi si registra la più alta percentuale di desiderio di vivere e lavorare all’estero rispetto ad altri paesi della regione.
Secondo il sondaggio, il 46% degli intervistati in Albania sta pensando di lasciare il paese. Si tratta della percentuale più alta tra i paesi analizzati.
La grande indagine sull’emigrazione dello scorso anno ha rivelato che dal 2011 al 2019 altre 360mila persone hanno lasciato il Paese. Secondo Monitor.al la popolazione reale in Albania da 2,8 milioni, è scesa a circa 2,4 milioni.
Sul totale degli albanesi intervistati che vogliono emigrare, il 68% punta ai paesi dell’Unione Europea e il 25% agli Stati Uniti d’America.
Ma l’Italia non è più al primo posto. Svetta la Germania con ben il 35%.
Interessante è il ruolo che l’Albania sta assumendo in Europa rispetto al problema dell’emigrazione. Infatti, a partire dal 2019, l’Albania è diventata il primo stato non Ue ad ospitare una missione di Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera. Questa missione consiste nello spiegamento di guardie di frontiere e costiere, navi, veicoli e aerei per fronteggiare le sfide che si presentano alle frontiere dell’UE. Nel Mediterraneo la missione consiste nell'affrontare la pressione migratoria a sostegno dell’Italia, della Grecia e della Spagna.
Un anno e mezzo dopo, la missione è stata rinnovata e ora in Albania, dopo oltre trent’anni dallo sbarco della Vlora, operano 71 agenti di Frontex di venti diverse nazionalità. Quindi l’Albania ha cambiato pelle. Trent’anni fa l’arrivo dei suoi cittadini sull’altra sponda dell'Adriatico ha determinato il falso mito dell’invasione dei “clandestini” in Italia. Oggi ospita l’agenzia simbolo del contrasto ai flussi migratori che preserva la cosiddetta “Fortezza Europa”, assolvendo a compiti spesso ingrati. Una collaborazione impensabile fino a qualche decennio fa, ma che è indicativa dell’evoluzione delle politiche Ue in materia di migrazione e di asilo.
1 Elvira Kadriu, “La prospettiva albanese. L’anniversario della Vlora visto dall’altra sponda dell1’Adriatico” in “A trent’anni dello sbarco della Vlora - Breve viaggio nell’Italia che si è scoperta paese di immigrazione”, CILD, Open Migration 2021, p.27
2 Ibidem, p. 27
3 Ibidem, p. 28
4 Ibidem, p. 28
N.B. Le foto pubblicate sono tratte da “Trent’anni dallo sbarco della Vlora - Breve viaggio nell’Italia che si è scoperta Paese di Immigrazione” Open Migration
BIBLIOGRAFIA
CILD, “A trent’anni dallo sbarco della Vlora, breve viaggio nell’Italia che si è scoperta paese d’immigrazione” pag 27/28/29/92/93
LA TESTIMONIANZA DI LORENC FALEQI: UN ESEMPIO DI INTEGRAZIONE
Per comprendere fino in fondo cosa accadde nell' Albania di quel lontano 1991, abbiamo intervistato Lorenc Faleqi adolescente ai tempi del suo arrivo a Monopoli e oggi dirigente sportivo di "Sport Project"- Piscina comunale di Bitonto. Lorenc è, da decenni, un punto di riferimento del nuoto agonistico nella provincia di Bari e rappresenta un esempio di reale integrazione e di affermazione professionale.
Quando e come è arrivato dall’Albania?
Sono arrivato in Italia il 5 marzo 1991 come profugo. Sono partito da Valona e sono sbarcato nel porto di Monopoli. Sono stato a Monopoli per alcuni mesi, successivamente, essendo un nuotatore agonistico in Albania, decisi di recarmi al CUS di Bari dove iniziai a gareggiare e presi il mio primo brevetto di assistente bagnante. A giugno del 1991 venni assunto come assistente bagnante al CUS.
Mentre si trovava sulla nave con cui è arrivato in Italia, quali emozioni ha provato?
Considera che ho raggiunto la nave a nuoto, dato che eravamo lì da 24h e la nave non partiva. Quando io sono sceso, la nave è partita ed ho dovuto raggiungerla a nuoto in un nuovo porto. La distanza tra Valona e Otranto è di circa 80 chilometri. Noi pensavamo di raggiungere le coste italiane in poco tempo. Credevamo che, appena usciti dal Golfo di Valona, avremmo visto le luci di Otranto. Invece, ho trascorso 24 ore in viaggio, su una piccola imbarcazione, stipato in un angolino con indosso solo il costume da bagno! Le paure più grandi erano la fame e la sete, non vedevo l’ora di arrivare dall’altra parte. Non c'era il capitano della nave. L'imbarcazione era un rimorchiatore e a bordo eravamo in 732. La barca era guidata da volontari senza alcuna competenza e senza avere punti di riferimento. Così ci ritrovammo in Croazia. La guardia costiera albanese aveva fatto partire l’sos alla guardia costiera italiana che, nonostante ci stesse cercando, non ci trovava. Ci avvistò in mare una petroliera Russa. Fu la nostra salvezza. Fummo accompagnati verso le coste italiane dove le navi erano in pattugliamento alla ricerca di quel rimorchiatore con 732 persone, segnalato dalla guardia costiera albanese.
Perché decise di partire e come prese questa sua decisione la sua famiglia?
Ero un nuotatore agonista e frequentavo il quinto anno di scuola superiore. Con il crollo del muro di Berlino, la fine della dittatura di Enver Hoxha e con la crisi economica, sociale e politica che colpì anche l’Albania, crebbe in noi giovani la voglia di scoprire nuovi orizzonti. Le nostre famiglie erano ormai consapevoli del desiderio di fuga che colpiva in massa i giovani. D'altra parte non c'era altra alternativa per un futuro migliore.
La sua famiglia è riuscita ad arrivare in Italia?
Sì. I primi anni ho vissuto da solo. Inizialmente lavoravo al CUS, successivamente mi iscrissi anche all’università di Bari. Nel 1993 mi spostai a Bitonto dove mi raggiunse la mia famiglia. Come sempre avviene tra immigrati c'è chi funge da apripista. Nel caso della mia famiglia questo ruolo l'ho svolto io, creando una catena di solidarietà parentale.
Lei è giunto in Italia qualche mese prima rispetto alla nave Vlora. Cosa ha pensato dell’Italia quando hanno chiuso i suoi connazionali nello Stadio della Vittoria?
Sono state immagini che mi turbarono molto, ma ero consapevole che non era facile gestire quella marea umana in modo efficiente. Comprendevo che la situazione poteva sfuggire di mano. Il timore degli albanesi era di essere rimpatriati e ciò scatenò una serie di incomprensioni. Non mi sento di condannare quelle decisioni, visto che gli italiani sono un popolo accogliente e l'Italia non ha nulla da imparare in fatto di accoglienza e immigrazione.
L'esodo in massa di quegli anni ha migliorato il rapporto fra Italia e Albania?
I rapporti tra l’Italia e l’Albania erano più televisivi che altro. Gli albanesi conoscevano molto bene l’Italia attraverso la tv e l’Italia non conosceva affatto l’Albania in quanto non aveva notizie, essendo un paese chiuso in se stesso. L’Italia era una specie di “Eldorado” ovvero un sogno per ogni bambino albanese. L’italiano, anche se non veniva parlato, era facile da capire. Questo rapporto col passare degli anni si è fortificato. In realtà dal 1992 al 1997 c’è una specie di caccia all’immigrato nelle tv per una questione di impreparazione ad affrontare una immigrazione di massa. Ma oggi ci sono scambi continui tra Italia e Albania. C'è anche un fenomeno di immigrazione al contrario. Molti italiani si trasferiscono in Albania per affari o per motivi di studio.
Tornando indietro rifarebbe la stessa scelta? È stato utile?
Queste sono scelte legate ai momenti storici. E' chiaro che lo rifarei. Le condizioni di vita mie e dei miei parenti sono decisamente migliorate. Siamo perfettamente inseriti in Italia, abbiamo conseguito lauree e molti membri della mia famiglia ricoprono ruoli apicali nei loro settori lavorativi. La mia esperienza mi porta a comprendere pienamente tutti coloro che si muovono dalle situazioni disagiate verso situazioni migliori e mi porta a dire che l'altro è una ricchezza e non bisogna temerlo.